Venerdì, 03 Marzo 2006 20:19

Sui "bricoleur"

Scritto da  Gerardo

Copertina di Religioni e SocietàNel seguito pubblichiamo una riflessione su di una "scheda" apparsa nell’ultimo numero di Religioni e Società.

Il libro in questione è Il bricolage religioso. Sincretismo e nuova religiosità (P. Lucà Trombetta, Dedalo, Bari, 2004) e la "scheda" può esser letta a p. 103 della Rivista.

La questione riguarda il fenomeno del religioso "fai da te", o "bricolage religioso", tanto attaccato, tanto difeso. Semplicemente reale e "dato" tra i fenomeni del religioso contemporaneo.
Sui bricoleurs

Nell’ultimo numero di Religioni e Società e in particolare nella scheda al volume “Il bricolage religioso. Sincretismo e nuova religiosità”, c’è una frase che mi ha colpito, questa: “Attraverso la reinterpretazioni di verità soprannaturali, il bricoleur tenta, in molti casi, di risacralizzare il mondo, sintetizzando significati che gli appaiono compatibili con la sua esperienza. Le sue costruzioni, al pari delle riparazioni di oggetti fatte da persone inesperte, sono spesso bizzarre e non del tutto coerenti, ma mai prive di senso e utilità”.

Assimilare le costruzioni del bricoleur al tentativo di operare da parte di mani inesperte equivale a ritenere che questi, così facendo, si improvvisa, si cimenta in qualcosa che, fondamentalmente, non gli compete.
Secondo la logica interna al ragionamento, siamo forzati a supporre che, per contro, vi debba essere un qualcuno che possegga proprio quel genere di competenza. Ora, questo conduce all’evidenza di una premessa implicita ma operante: esiste una verità soprannaturale e non solo, il suo senso è tale che di essa si dia un sapere che se non è certo è almeno in una qualche misura “certificabile”.
Dunque, non è in questione se una o più di tali verità esistano, né, tanto meno, se esista un qualcosa che possiamo dire soprannaturale (benché in questo caso potremmo anche spingerci a far nostra la posizione di chi sostiene che wovon man nicht sprechen kann non esiste “discorso”, no hay).
È in questione, per un verso, se si dia un sapere di tal fatta e, per un altro, più sottilmente, se tale sapere si distingua da altri che però manchino di quel “quid” che li renda pienamente accettabili dalla comunità dei competenti.
Su questo, e in particolare sull’ultimo punto, si appunta il dubbio di chi scrive. L’impressione è che, insistendo su questo punto si finisca in un’aporetica nel cui alveo vengano trascinate ben più importanti questioni.

Andando avanti, e finalmente in termini più netti, ci si chiede se non si possa ritenere, pur nella sua sconcertante (unheimlich, direbbe Freud) parzialità e “incompletezza”, che l’utilità e il senso, di cui queste costruzioni non sono mai del tutto prive, possa invece essere quanto ci è dato conoscere. Non potrebbe essere quanto meno dubbio ritenere che la “non totale coerenza”, o se vogliamo la stessa idea di coerenza, sia criterio appropriato nello studio del fenomeno religioso?
Certo, questa seconda idea è almeno “forte” e se per studio del fenomeno religioso intendiamo uno studio sociologico (ma dove sta il suo limite teoretico, nell’estensionalità dell’appartenenza o nell’intensionalità della credenza?), bene, accettare l’idea di una intrinseca incoerenza del suo oggetto può comunque apparire insoddisfacente.

Provo ad andare per gradi e conviene che mi soffermi più a fondo sulla prima parte del ragionamento. Per questo mi fan da spunto un paio di cose che ho trovato nel prosieguo della scheda e cioè l’idea che questo tentativo può esser compreso nel suo darsi ad opera di un moderno e cattolico bricoleur intento a “ridefinire la propria posizione all’interno della Chiesa” e al suo muoversi in “relativa autonomia dall’autorità gerarchica” di essa. Ecco, torno alla premessa “implicita e operante”: si tratterebbe di azioni, appunto, di ridefinizione che nel complesso non urterebbero più che tanto il complesso dell’edificio. Tutt’altro, potrebbero porsi a maggior impegno nell’opera di avvicinamento a quella stessa verità soprannaturale. In questo caso tuttavia non avremmo un vero bricoleur ma, cambiando metafora, un “fantasista” la cui manovra è finalizzata, o se vogliamo gramscianamente “organica”, al gioco di una ben definita squadra.
Il vero bricoleur, per dannazione sua propria, è un maledetto relativista, che non ha che una via, la sua, per cogliere la verità. È dunque necessariamente relativista. Ma se guardassimo la questione con l’occhio di Dio non ci apparirebbero altrettanto relativiste almeno tutte le grandi religioni monoteiste? Chissà, se avessimo l’occhio di Dio avremmo una rivelazione. Solo che questa, per la sua stessa natura, non ammette mai alcun lavoro di fantasia. La domanda allora, inquietante, diventa questa: non sarà che non si diano altro che bricoleurs più o meno organizzati?

Dal mio punto di vista c’è una questione che decisivamente porta a rispondere in maniera affermativa. Il nocciolo della questione sta in una ricerca, personalmente svolta, alla radice del termine Witz, che nel risultato mi ha condotto a sostenere che lo Spirito, e con ciò il dominio di discorso del “soprannaturale”, sia Witz e non Geist – e che come tale “viene a mancare” nella storia delle idee – per lo meno dal lato della filosofia – abbastanza presto, diciamo con Hegel.
E dunque non sarebbe più in questione il Geist, nell’alto del cielo della sua metafisica e della religione rivelata, ma il Witz, che sebbene oggi valga poco più che “spiritosaggine”, qualche volta intuizione, arguzia, ma assai più spesso “sberleffo”, nella sua sacra origine (l’indoeuropeo Å­eda, da cui vedere, idea), stava proprio a significare l’intelligenza delle cose, l’essenza stessa della della parola, di quella parola che non rivela altro che il pathos di chi la pronuncia.
In altri termini, avremmo a che fare con uno spirito che prorompe dalla parola detta, la quale, in tal modo, chiama in causa quell’Affektivbetrag, quel carico affettivo che sta nel corpo di chi parla. Peraltro, la natura che si oppone al sovrannaturale è quella che la fisica moderna cerca di cogliere e dunque il sovrannaturale, al di là del fatto che si lasci o meno imbrigliare nelle leggi del linguaggio (o che resti imprigionato nelle sue pastoie), va a denotare un ambito “per natura” inaccessibile.

L’idea razionalista, e neanche troppo cartesiana perché di matrice assai più antica, vuol leggere tutto dal “piano superiore” di ciò che si può dire ma appare sospetto che le “verità soprannaturali” si lascino dire nel discorso coerente, vagliare con l’analisi logica del linguaggio e dimostrare more geometrico.
Credo che l’idea di una qualche coerenza, la quale prepara il terreno all’illusione della sistematica di uno studio sociologico tout court di questo fenomeno, sia in fondo un comodo riparo, tal come quella siepe, tanto cara al giovane poeta, che da tanta parte dell’orizzonte il guardo esclude. E protegge. Ma di là da quella, non c’è dolce naufragio se non nel coraggio del grande filosofo (e poeta). Il cuor prende paura, l’unheimlich è il reale di un timor dei in sé già proiettivo. Ai sovrumani silenzi non può bastare il contrappeso della “visione” di un bricoleur. Ma forse, più di questo, no hay.

g.
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